Collezionista di gesti

Stimparino collezionava di tutto, per Milagro era un piacere andarlo a trovare.
La casa era un’enorme stanza in penombra. Un magazzino quasi. Un fondo senza fondo mai abbastanza pieno  di esperienze; nuvole, sguardi prolungati, sassi di mare, aggettivi, calze di lana, spine senza rose,  racconti di sogni, delusioni, equivoci, meteropatie, gelsomini, macchie sui muri, musichette rassicuranti, pezzi di carta, frasi preziose,  tappi di bottiglie di vino, lettere scritte con passione e mai spedite,  cose di colore rosso, silenzi volontari e involontari, pomeriggi oziosi, avverbi rari,  smascheramenti, punti di vista, pregiudizi superati, stupori, pernacchie tempistiche, bellezze inconsapevoli, mani, buoni consigli fuorisincrono, bottoni smarriti, accendini ritrovati, traspies, suoni familiari, rumori nuovi, ritorni, vari tipi abbracci, domande chirurgiche, risposte taglienti, lune, amiche molto belle, dichiarazioni tardive, labirinti, telefonate notturne, valutazioni mediocri, lunghi commenti in post brevi, qualsiati tipo di ombra, spiegazzature, baci estorti, riscritture di finali storie , odori umani.
Almagro camminava un po’ eccitato il quel mondo di collezioni, le toccanva  furtivamente, come fossero cose sue, perdute, dimenticate dalla vita, e tutte ben riposte nell’anima, ritrovate nel magazzino di Stimparino.
C’era ancora tutto:  sonni omerici,  età interiori, film autoprodotti, dialoghi immaginati, ottime scuse, pessimi alibi, oroscopi inventati, molte considerazioni cronopiche, pause, riserve, risposte inutili, risposte utili, piedi nudi, nuotate sottacqua, freddi irriducibili, simboli, rimedi, scelte, luoghi del tempo, passi,  biodiversità, giorni di soledì, vezzeggiativi pe tutti, litigate terapeutiche,  borsecalde,  segreti altrui, messe occasionali, funerali memor, finestre sconosciute illuminate, androni di palazzi, direzioni immaginarie di sinfonie, trashologie, cazzeggismi di primo livello, libridini, piante rinate o sepolte, azzardi, verità ben assestate, pianti lunghissimi, corpo a corpo sul divano, specchi onesti,  regole inventate e rispettate, risate col maldipancia,  mancanze piene, conversazioni impossibili, cazziate a quelli che ami,  critiche costruttive a fondo perduto e non richiesto,  incoraggiamenti a perfetti sconosciuti,  gravi ignoranze musicali (tipo i Pink Floyd).
Stimparino sorrideva con gli occhi,  lasciava aperta quella enciclopedia dell’effimero in casuale bella, alla bisogna di ogni necessità, senza spiegare nulla.
Almagro era attratto da uno scaffale, la collezione di  gesti, quasi tutti perfetti,  gli sarebbe piaciuto averne uno uguale.
Ma capiva che ci voleva tempo e occhi buoni per una collezione così.
Stimparino si avvicinò, intuì quel luccichio negli occhi di Amagro e disse all’amico:
“Per scovare buoni gesti ci vuole uno sguardo musicale e pazienza. È una questione di cadenza, di modo e di tempo uniti dall’istinto. È una questione di groove dello sguardo, dell’orecchio nel tempo preciso dell’attimo. Devi stare lì in ascolto costante, in attesa,  come un basso continuo, facendo finta di non esserci, di non aspettarli, furtivo e invisibile, allora li acchiappi i migliori. Bisogna dargli spazio, mai anticiparli, altrimenti scappano, svaniscono. Devi fare così sempre, anche se li conosci già. ”
Almagro sorrise per ringraziare l’amico della risposta intuita, per il gesto di Stimparino
Pensò che anche lui aveva una sua piccola collezione del giorno: Rivedeva e risentiva quel certo modo di stare distante col corpo del ragioniere Lopaco, che preservava lo spazio fisico da non oltrepassare, la lontananza di quello sguardo che stabiliva la distanza invalicabile, fisso davanti a lui guardando altrove. Il corpo e lo sguardo del signor Lopaco erano tutto un gesto di distanza cercata, rivendicata. Almagro doveva resistere alla provocazione di quel gesto, a quel certi modi di non toccare, di mescolarsi con niente.
Lo compensò immediatamente al corpo e alla voce della Signora Mira, la cassiera del bar di sotto. Aveva tutto un suo modo di  essere per l’altro nell’inflessione della voce materna calda, canterina, vezzeggiava il mondo anche se ti dava solo lo scontrino, creava una vicinanza con il suono della voce e con gli occhi che ti venivano incontro, col modo stesso di muovere le mani, abbracciava sempre il mondo come un figlio.

Certi gesti contraddittori come ossimori, uno che butta una carta a terra, mentre si lamenta della maleducazione di parchggia in seconda
O la cura concentrata edel nuovo inserviente del bar  ricarica i tovagliolini nel portatovaglioli?
Il modo che ha il vostro amico di muovere il pacchetto di sigarette quando fa una considerazione a cui non crede nemmeno un po’ e per cui non è necessario replicare.
Il movimento leggero del capo con cui il giornalaio vi saluta anche se gli passate davanti e non comprate nulla. Il modo di indugiare della mano sulla maniglia della porta che non sa aprirsi del tutto ma non vuole chiudersi, aspetta.

“Una volta li collezionavo tutti. I gesti che mi fanno innamorare, gesti potenti, gesti ignobili, gesti rassicuranti, gesti consueti, gesti inconsueti, gesti gentili, gesti volgari, gesti ridicoli, gesti divertenti, gesti esclusivi, gesti escludenti, gesti sprezzanti, gesti accoglienti, gesti illuminanti, gesti irreparabili, gesti riparatori, gesti attesi, gesti mancati, gesti miseri, gesti orripilanti, gesti perfetti.
Il gesto perfetto è un’opera d’arte gettata nell’immanente” continuò Stimparino con orgoglio di esteta ” è il punto in cui l’istinto cadenzato del modo e del tempo di dentro, prende forma, fuori, nella potenza della bellezza.
Ecco io davanti al gesto perfetto m’inchino, sto zitto. Finalmente sto zitto  e cedo il passo.
Ubi major verba cessat! Rimango incantato, ammirata, quando un gesto sostituisce una risposta o quando, addirittura, fa una domanda, e incoraggia un altro gesto. Lo pretende.
Accade di rado ovviamente, sempre più di rado. Ma accade.
Anche se siamo abituati a sostituire i gesti con le parole, come se le parole davvero potessero qualcosa: nnamo, dimo, famo… faremo, saremo, fummo, mai, qui e blàblàblà… Tutto da verificare.
Ci sono volte poi che io le parole le prendere a sberle, tanto sono inutili, messe lì solo per comparire e farci fare buona figura, ma senza significare neanche un po’…
La tratta delle parole stipate a dare un nome il vuoto con il loro rumore,  parole che non sanno di niente.  Sanno sempre di vuoto.
E intanto… tra i tanti gesti di ogni giorno, ci  sono gesti bellissimi, veri, pieni di sostanza.
Gesti quotidiani che cadono nel vuoto dell’invisibilità… sotto i nostri occhi assuefatti.
E bisognerebbe imparare ad ascoltare i gesti, ad assaporarne il significato, udire il movimento dell’animo, della sua azione attraverso il corpo. Il gesto non mente, compreso quello del buon attore.  È un segno affidabile, una guida sicura delle intenzioni, dei desideri più intimi e autentici. Ed è importante riconoscere il gesto autentico, che è bello solo quando incarna il significato, quando coincide col significato, quando “è” il significato.  Altrimenti il “bel gesto” fine a se stesso è solo aria fritta, balletto, pantomima. Ridicolume irritante. (troppe rose di scuse ho ricevuto! troppe… per amare ancora le rose) Il finto bel gesto, il gesto fine a se stesso, vuoto …. è la cosa peggiore, è l’ostentazione di qualcosa che di fatto non c’è, la certificazione della sua mancanza. Meglio la solita fiction delle parole allora.

A volte credo che l’amore sia tutto fatto di gesti, senza neanche una parola.
E  credo che, nell’amore, persino le parole siano gesti.

“Solo quando li riconosci bene puoi nominarli. Ma basta lasciarli parlare e non c’è bisogno nemmeno di  interrogarli anche se sono  estranei,  nuovi.
I gesti dicono sempre.  A volte Fanno. Possono. I gesti curano o feriscono.
Costruiscono continenti o li distruggono in un nanosecondo. Ritraggono intenzioni. Svelano mondi interiori, intelligenze, insicurezze.  Mediocrità, profondità. Dicono tutto. Più e meglio delle parole.

Messina 16 Febbraio 2008

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